Dal mio blog
Era all’ incirca mezzogiorno quando Lorenzo aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il suo compagno di banco, che tutto sembrava meno uno studente, impegnato com’ era a giocare col cellulare e a bestemmiare ogni volta che perdeva. La prima cosa che sentì fu la voce dell’ insegnante; leggiadre parole fluttuanti nell’ aria gli sfiorarono i capelli e si andarono a perdere da qualche parte dietro di lui.
Alzò lentamente il capo e mise a fuoco l’ aula piena di luce, fino a riuscire a distinguere le ambigue figure chine sui banchi, piccoli uomini e donne freneticamente annoiati. Sfogliò pigramente il libro davanti a lui per dare all’ insegnante l’ impressione di possedere ancora un’ io (sapeva che la professoressa lo guardava; si accorgeva di ogni sua mossa) e si guardò intorno.
Sentiva che stava per farlo, ormai era diventata un’ abitudine. Era abitudine, per Lorenzo, sfruttare un dono dell’ intelletto umano per scopi prettamente materiali e, sotto diversi punti di vista, maledettamente perversi.
Guardò Sabrina. Quel giorno era molto carina, con quella scollatura e la terza abbondante di seno in bella vista, i pantaloni attillati e le gambe accavallate. Poggiava il mento su una mano, mentre con l’ altra prendeva appunti e ogni tanto, saltuariamente, lasciava la penna e accompagnava le dita alla bocca, mangiandosi qualche pezzo di pelle.
A tale visione, Lorenzo sentì dei movimenti nello stomaco, e un’ incredibile eccitazione si impadronì di lui. Il giorno prima non si era masturbato, e gli occhi sembravano immobilizzati in quella improbabile angolazione: puntavano alle gambe di Sabrina.
Si disse che era il momento di farlo, era il momento di macchiarsi di nuovo di quel terribile peccato. Non gli interessava essere una persona definita, non gli interessava imparare dalla vita a conquistare una ragazza, a farsi amare e desiderare; non sapeva dell’ importanza di quelle cose, non le aveva mai provate, e in quel momento gli ormoni avevano preso possesso di ogni singola facoltà intellettiva di Lorenzo. Lo possedevano, era il loro burattino, e la sua volontà, già debole da lucido, si smarrì da qualche parte nei tetri meandri di quella mente.
Lentamente, per non farsi notare, alzò il braccio destro. Guardò l’ orologio: le 12.05.
Poteva sentire il pene farsi grosso nelle mutande, provocandogli dolore: gli piaceva quel dolore, lo faceva sentire vivo.
Dopo alzò il braccio sinistro e, come se fosse guidato da un filo, lo lasciò avvicinarsi all’ orologio. Toccò il freddo metallo, riuscì a percepire tutto in un momento la complessità degli ingranaggi. Avvertì l’ insano affetto che provava per quello strumento di morte, la SUA morte, e con delicatezza premette uno dei pulsanti laterali.
Il mondo si fermò. Non è una metafora, il mondo si fermò sul serio. La Terra smise di ruotare e le onde si immobilizzarono a un passo dalle spiagge. Gli uccelli rimasero sospesi in aria e le nuvole si ghiacciarono in cielo. Dalla finestra Lorenzo vide infittirsi sulla città una chiara bruma arancione, che invase anche l’ aula e rimase lì dentro. La professoressa era rimasta a bocca aperta, ma non perchè fosse sbalordita: si era bloccata anche lei. Tutti si erano bloccati, il mondo intero si era cristallizzato e Lorenzo non non pensava nemmeno al perchè. Agiva e basta.
Chiunque si sarebbe stupito, sarebbe rimasto stupefatto di fronte a quel grandioso spettacolo. Chiunque si sarebbe sfregato gli occhi, dato un pizzicotto o fatto qualcosa per svegliarsi, perchè tutto sembrava meno che vero. Sembrava UN SOGNO. Ma non era un sogno. Quello che stava per succedere sarebbe potuto essere più attribuibile ad un incubo invece che ad un sogno.
L’ aria era calda, curiosamente, e Lorenzo iniziò a spogliarsi. Si tolse prima la maglietta, poi le scarpe. Si sfilò i pantaloni, i calzini e infine anche le mutande. Il suo pene, invece, rimase lì, bello dritto, e credetemi: se avesse potuto, si sarebbe piegato in direzione di Sabrina. Ed è lì, da quella bella ragazza, che Lorenzo si mosse immediatamente. Le prese le braccia per un attimo e la sollevò dalle ascelle, mettendola a sedere sul banco. Iniziò a baciarla, a infilarle la lingua in quell’ immobile bocca senza sentire alcuna risposta di sorta. Non c’ era più nessuno ma tutti guardavano. Mentre la baciava le accarezzava le gambe che lui stesso le aveva accavallato, e poi spinse le mani sotto la maglietta. Le fece salire, salire, salire fino a quando non sentì la dura stoffa del reggiseno, e una volta passata quella incontrò il morbido seno. Lo accarezzò per un po’. Dopo qualche secondo tirò fuori le mani, le tolse la maglietta e anche il reggiseno. Si chinò, passò alle scarpe e dopo averla distesa sul banco le sfilò via anche i pantaloni. Aveva delle cosce perfette, polpacci sodi e ginocchia sottili.
Le levò le mutandine, buttandole per terra, e allargandole le gambe la penetrò con decisione. Sentì il pene esplodere e fu invaso da un vago tremore alle gambe, forse per l’ emozione. Iniziò a pompare duramente e chiuse gli occhi per gustarsi meglio la sensazione, ma quando gli aprì lo sguardo gli cadde sul viso di lei, terribilmente impassibile mentre fissava il soffitto. In un attimo Lorenzo ricordò, con un brivido lungo la schiena, ricordò la stessa espressione dipinta sul volto di sua cugina dopo che lui aveva cercato di baciarla. Ricorda la stessa freddezza, la stessa noncuranza.
Come per scacciare il ricordo prese il viso di Sabrina tra le mani e con le dita le chiuse gli occhi e, sempre pompando, le aprì la bocca, per darle un’ espressione almeno un po’ più collaborativa. Dopo un paio di minuti si fermò, per far passare l’ impulso dell’ orgasmo, e lo tirò fuori. Afferrò la ragazza dal ventre e la girò, facendole poggiare le gambe per terra e impostandole come più gli piaceva: una leggermente piegata e una dritta. Tenendola così, alla pecorina se vogliamo, la penetrò da dietro e continuò, incredibilmente frenetico e affannato. Ogni tanto si piegava in avanti, le alzava il busto e le stringeva i capezzoli, poi la lasciava ricadere sul banco, inerme. Continuò così fino a quando non sentì di nuovo l’ impulso di venire. Allora gli venne un’ idea. Girò un’ altra volta il corpo della poveretta, la distese e si mise a cavalcioni sulla sua pancia. Le prese i seni, li strinse tra di loro e vi infilò il pene in mezzo. Ricominciò a pompare, stavolta con più energia, fermandosi solo ogni tanto per sbattere il prepuzio su uno dei due capezzoli o metterglielo in bocca. Continuò così per altri due minuti buoni quando alla fine non ce la fece più: ancora preso dalla foga le venne sul petto, sul collo, in faccia; dappertutto. Ancora ansimante scese dal banco, e da lei, si diresse verso la porta dell’ aula e uscì, in direzione delle scale e, quindi, dell’ uscita principale.